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Il rapporto fede/ragione

Osservazioni di un filosofo

Questo contributo è stato pubblicato sulla rivista Per la filosofia, n. 20 (sett./dic. 1990), pp. 91/98,
col titolo “Osservazioni sul rapporto fede/ragione”.

Le osservazioni svolte nel presente articolo, su un tema indubbiamente difficile, non hanno la pretesa di dire qualcosa di esauriente o definitivo [1]. Sono state suscitate da un recente dibattito su tale problema, dibattito in cui ci è parso si smarrissero, in una spasmodica ricerca della citazione più aggiornata, le coordinate più elementari della questione.

Ed è appunto a questo livello, che ci proponiamo di riportare il discorso, non per ripetere cose già dette (ciò, che non sarebbe serio) ignorando gli aspetti di attualità del problema, ma lasciandoci guidare innanzitutto dal Magistero e dalla tradizione bimillenaria della Chiesa.

I. Il carattere paradossale del rapporto

Prima di scendere nel merito più specifico delle questioni connesse al problema, è forse opportuno soffermarsi a considerare un aspetto generale, spesso trascurato. Intendiamo cioè dire il carattere «paradossale» del rapporto fede/ragione, che rientra nel più ampio contesto di «paradossalità» del mistero cristiano. Ci richiamiamo soprattutto, ma non solo, al discorso di de Lubac [2], il p. 91 quale ha prodotto delle interessanti ed organiche riflessioni sul tema. La totalità cattolica (kath’olon, estesa al tutto) ha un carattere paradossale, nel senso che è strutturata in «sintesi antinomiche », unità cioè di polarità apparentemente contraddittorie: ad esempio, unità e trinità di Dio, umanità e divinità di Cristo, onnipotenza divina e libertà umana, giustizia e misericordia, universalità e particolarità della Chiesa, e via dicendo.

Tra le varie polarità, che strutturano la totalità, vi sono quelle, parallele, di ordine naturale e ordine soprannaturale (sul piano ontologico) e di ragione e fede (sul piano gnoseologico).

Ora, la cosa più difficile da accettare, in questo come negli altri paradossi, è che le polarità non si comportino come due antagoniste, in rapporto, per così dire, di proporzionalità inversa, ma piuttosto come variabili direttamente proporzionali. Tale difficoltà è riscontrabile anche storicamente, in una oscillazione da una situazione di squilibrio soprannaturalistico (quale fu per molti versi la civiltà medioevale) ad una di squilibrio naturalistico (come quella moderno-contemporanea), quasi fosse impossibile trovare un giusto rapporto tra i due poli, come se la affermazione dell'uno comportasse la riduzione o la negazione dell'altro.

Bisognerebbe invece riconoscere, alla scuola tra l’altro sia del più recente magistero conciliare e pontificio, sia delle più vive esperienze cristiane del nostro tempo, che l'esaltazione del divino va di pari passo con quella dell'umano. Se contrasto sembra esservi, significa che uno dei due poli (o più facilmente entrambi) non è inteso e vissuto come dovrebbe. In ogni caso la sintesi «paradossale » non è una sorta di media matematica, che livella ed appiattisce le due polarità, quasi un compromesso, in cui ognuna delle due parti rinuncia a qualcosa, per «accontentare» l’altra: la sintesi è invece tanto più perfetta e salda, quanto più i due poli, che la strutturano, sono pienamente attivati.

Ne consegue che solo apparentemente il fideismo privilegia la fede, e il razionalismo la ragione.


1.1 Stando alle affermazioni dei suoi esponenti, si direbbe che per il fideismo il modo migliore per lasciar spazio alla fede sia quello di distruggere, in qualche modo, la ragione: una ragione incapace di «risposte apoditticamente inconfutabili e senza alternative» sarebbe una ragione costretta a riconoscere la sua debolezza, e perciò «umile». Vi è in tutto ciò una certa parte di verità, nel senso che la ragione deve ammettere di non disporre, con le sole sue forze, di una conoscenza perfetta ed esaustiva riguardo a quei problemi fondamentali, che pure urgono come qualcosa di sommamente importante. Ma dire che la ragione non è tutto, non significa necessariamente dire che essa non sia niente, dire che non gode di un sapere «assoluto» (in senso hegeliano), non significa dire che non possiede la capacità di cogliere con certezza il vero. Quella capacità di verità, ricordiamolo, senza cui l'uomo non può essere davvero libero, né davvero persona.

Collegandoci meglio col discorso sopra fatto, chiediamoci: una impostazione fideistica salvaguarda veramente la fede? A nostro avviso no. Essa conduce infatti a far poggiare la fede su uno slancio volontaristico immotivato, e dunque p. 92 soggettivo ed arbitrario. Insomma credo, perché voglio: tutto dipende da me, e non dall'oggettiva imponenza di una Realtà, che mi si comunica e manifesta attivando e non spegnendo quelle facoltà, da essa stessa create. Una fede che non vincolasse al Dio, che si rivela, come ad una realtà, lascerebbe all’arbitrio soggettivo il capriccio di disporne a proprio piacere. Non sarebbe dunque una fede stabile, né operosa, ma solo un rifugio sentimentale.


1.2 Anche il razionalismo cade in un errore, specularmente opposto a quello del fideismo, ma dal risultato simile.

Per i rappresentanti attuali del razionalismo il modo migliore per eliminare dalle fondamenta il pericolo fideista è quello di sfumare al massimo le differenze tra fede e ragione.

Reagendo a quello che gli appare come un eccesso di discontinuità, esso esagera la continuità tra i due poli; al punto da negare una irriducibilità essenziale, una differenza qualitativa tra fede e ragione. Da ciò segue una negazione (o una minimizzazione) della «misteriosità» dell'oggetto di fede, della sua non-riducibilità allo oggetto della ragione.

Ma una fede che non differisse essenzialmente dalla ragione, sarebbe ancora una fede soprannaturale?

Per difendere i diritti della ragione non è affatto necessario combattere e misconoscere i diritti della fede: come non occorre che, perché la fede sia «forte», la ragione sia «debole», così non occorre che sia debole la fede, affinché sia forte la ragione!

Anche qui potremmo chiederci, se, almeno, il razionalismo valorizzi pienamente la ragione; e anche qui ci pare di poter verificare quella legge di una proporzionalità diretta tra le due polarità, per cui la risposta è ancora negativa. Infatti come uno che non accettasse di parlare con un altro, prima di avergli legato le mani, non dimostrerebbe la propria forza ma la propria debolezza; così una ragione, che non si sentisse al sicuro se non imbrigliando e costringendo nei propri schemi la incommensurabilità della fede, dimostrerebbe di essere una ragione non forte, ma pusillanime e anchilosata. Soprattutto non sarebbe fedele a se stessa, dato che il suo costitutivo profondo è una sete di verità totale, che essa non può non riconoscere esorbitante le sue capacità. Una ragione, che preferisse salire sulle spalle di un nano (cioè di una fede ridotta alla propria misura, addomesticata), invece che su quelle di un gigante (cioè della fede soprannaturalmente debordante la sua misura), dimostrerebbe di non voler vedere abbastanza lontano. La fede infatti comporta una lievitazione e una dilatazione della ragione, la quale quindi non ha che da guadagnare dalla sua «forza».

II. Il possibile significato di tale paradossalità

Vogliamo ora riflettere sul significato di questa paradossalità: poiché è sì vero che ragione e fede non si contrastano, né si elidono, ma anzi si esaltano. E tuttavia non si può certo dire che si tratti di un rapporto pacifico ed immediato: di paradosso, di una verità non perfettamente penetrabile si tratta.

La fede implica fiducioso abbandono, sequela, rischio. Certo tutto ciò non è un salto nel buio, non è, per il cattolicesimo, paradosso e scandalo in senso kierkegaardiano; non è un andare contro la ragione. È però un andare oltre di essa.

La ragione è invece desiderosa di conoscere il più possibile il tutto con la massima certezza e criticità. Ne consegue una connaturata esigenza di spregiu- p. 93 dicatezza radicale, a 360 gradi, per così dire: essa non accetta di essere ingannata, non è paga di pascersi in dolci illusioni, ma preme impetuosamente per giungere alla verità piena e totale.

Dunque non di una facile e piatta armonia si tratta, ma piuttosto di una concors discordia.

Vediamo allora di fissare, sinteticamente, alcuni punti, innanzitutto sul come, e poi sul perché, di tale paradosso.

II. 1 Fenomenologicamente, il rapporto tra fede e ragione si istituisce sul piano dei problemi ultimi, concernenti il significato del reale e dell’esistenza.

La ragione infatti, secondo una millenaria tradizione di realismo gnoseologico cristiano, non è limitata al fenomenico: oltre ad un livello periferico, analitico, di cognitio vespertina oggi abbondantemente coltivato dal sapere scientifico, esiste un livello centrale, sintetico, volto ad una cognitio matutina, di ricerca del significato totale. È questo livello l’anima profonda della ragione, ed è qui che la ragione si incontra con la fede.

Vi si incontra come una domanda con la risposta adeguata (nella impostazione blondeliana, che a nostro avviso non va confusa con quella «debole »), ovvero come una capacità di risposta parziale con la risposta totale (nella impostazione metafisica «classica»).

In tale incontro le due polarità si attirano e si attivano reciprocamente, secondo le classiche formule fides quaerens intellectum e intellectus quaerens fidem, senza tuttavia che scompaia la loro differenza essenziale, e anzi una sorta di benefica tensione.

II.2 Come si spiega tale concors discordia, tale positiva dialettica?

Innanzitutto abbiamo la risposta, fornita dalla speculazione medioevale [3]: fede e ragione promanano dalla medesima fonte (il che giustifica la loro concors discordia), fonte che si è però manifestata in modi diversi: naturale e soprannaturale, il cosmo e la storia sacra (il che spiega la concors discordia).

La teologia più recente, e lo stesso odierno magistero pontificio [4] ci dischiudono anche un altro modo, complementare al primo, di intendere il come di tale rapporto. La prospettiva è quella di una concentricità di oggetti formali: l'oggetto formale della fede è concentrico a quello della ragione; il soprannaturale non è una aggiunta estrinseca ed esterna, per così dire, al naturale (con cui peraltro non coincide, e a cui non si riduce), ma ne è il cuore e il centro; Verbo, in cui tutto ciò che esiste è stato fatto ed esiste, Alfa ed Omega di tutto, il Cristo come ci insegna l'allora pontefice, Giovanni Paolo II, nella sua prima Enciclica, la Redemptor hominisil Sommo Pontefice, è «il Centro del cosmo e della storia»; con i quali peraltro, cosmo e storia, non coincide. La concentricità dunque da ragione della armonia; la non riducibilità del soprannaturale alla natura, di Cristo al livello cosmico-storico, fonda la dialettica tra i due principî conoscitivi. La ragione filosofica infatti va sì oltre la buccia periferica del reale, a cui deve fermarsi la ragione scientifica, ma soltanto la fede ne coglie l’intimo nucleo, la profondità centrale, che lo permea e lo sostiene.p. 94

II.3 Se ora volessimo cercare di dire qualcosa sul perché di tale dialettica «paradossale », potremmo trovare un primo livello di risposta nello stato di corruzione, in cui versa la ragione nel suo concreto esercizio, in seguito al peccato originale.

La ragione che si rapporta al dato di fede non è infatti, esistenzialmente, in actu exercito, una ragione sana: le cattive inclinazioni, ultimamente riconducibili al peccato originale, tendono a farla deviare dal giusto cammino (citazione dalla Divina Commedia«l'affetto l'intelletto lega»). Se essa non fosse malata non avrebbe poi grandi difficoltà ad integrarsi con la fede.

Questo primo tipo di risposta contiene una parte di verità, ma non esaurisce il problema, non raggiungendone il fondo. Infatti, oltre a minimizzare il fatto che, anche in un ipotetico stato di natura integra, fede e ragione resterebbero due incommensurabili, se è vero che incommensurabili sono l’Infinito (alla cui conoscenza abilita la fede) e il finito (a cui è anzitutto legata la ragione), tale risposta riguarderebbe solo una condizione ipotetica. A noi preme invece la nostra, storica e reale condizione; la quale peraltro Dio, che è al di sopra del tempo, doveva ben aver presente quando decise (ci si perdoni il linguaggio) di creare: Dio non può essere stato «spiazzato» dal peccato, e quindi il modo in cui di fatto si rapportano la fede e la ragione deve avere una sua logica provvidenzialmente buona.

Noi non pretendiamo di scrutare, con le sole nostre forze, nelle intenzioni segrete di Dio, ma solo di riflettere a partire da ciò che Lui stesso ha rivelato di Sé, negli eventi della storia della salvezza, testimoniati dalla Scrittura e custoditi vitalmente dalla Chiesa.

Chiediamoci allora: perché Dio non ha semplificato le cose, fornendoci un unico, ed unitario, tipo di conoscenza circa le questioni supreme?

Bisognava proprio complicarci la vita?

Dai più umili catechismi possiamo trarre gli elementi per rispondere. Già abbiamo detto che fede e ragione si rapportano in modo analogo e parallelo a soprannaturale e natura: dunque il primo e più fondamentale motivo di distinzione sarà comune ai due livelli. E cioè la salvaguardia di quella libertà, che è coessenziale all'amore di carità. Sappiamo infatti che Dio è Trinità, cioè comunione di amore, e che il motivo per cui crea degli enti a sua immagine, è di renderli partecipi di sé, del proprio amore trinitario. Ora, è tesi comune nella tradizione cristiana che l’amore di benevolenza, l’agape, a differenza dell’amor concupiscientiae, sia essenzialmente libero. Non vi potrebbe essere amore, se non vi fosse libertà. Ma non vi potrebbe essere libertà, se la natura fosse fin dall'inizio e interamente assorbita dal soprannaturale, e la ragione fosse assimilata dalla fede, o meglio da quella che sarebbe una disposizione conoscitiva soprannaturale [5]. Era dunque p. 95 conveniente che la creatura spirituale fosse collocata in una situazione in cui potesse liberamente scegliere di aderire all’agape trinitario.

Era in particolare conveniente che tale libertà si strutturasse in una tensione dialettica tra continuità e discontinuità, tra «concordia» e «discordia», tra ragionevolezza e rischio. Non poteva infatti esserci solo continuità e «concordia» (tra i livelli), non solo perché l’Infinito è apofaticamente sempre al-di-là di ogni conoscenza/capacità finita, ma anche perché altrimenti la libertà sarebbe risultata soppressa, e la ricerca amante non sarebbe stata meritoria. D'altra parte non poteva esserci solo discontinuità e «discordia», non solo perché l'ente creato non può non manifestare e partecipare qualcosa del suo Creatore, ma anche perché altrimenti il rischio sarebbe consistito in un arbitrio allucinato e ultimamente narcisistico, ben diverso dall'amore, il quale non può sussistere in una condizione di totale assenza dell’Amato.

Se quanto abbiamo detto, alla luce delle più elementari verità di fede, è esatto, si capisce perché il rapporto tra fede e ragione sia quella dialettica paradossale, di cui più sopra abbiamo parlato: non si tratta di una situazione in qualche modo «sfuggita di mano» a Dio; non si tratta di conseguenza, di qualcosa che richieda un affannoso sforzo di alchimia concettuale, per un progetto (poco importa sefideistico o razionalistico) di riduzione e di «addomesticamento » delle due polarità. Tutto ciò invece poggia saldamente sulla roccia del disegno creativo-redentivo del Dio Unitrino.

III. Implicazioni

Vediamo in breve quali conseguenze concrete siano implicate dal discorso finora svolto. In quale rapporto stanno, esistenzialmente, fede e ragione?

Non v'è dubbio che il primato spetta alla fede. Il che però non toglie, anzi implica una attivazione totale della ragione.

L'assoluto conoscitivo esistenziale, l'orizzonte interpretativo ultimo e intrascendibile del concreto conoscere è la fede. È questa la prima, fondamentale, onniavvolgente, e onniilluminante certezza (si badi, parliamo di certezza, non di verità). Perché? Perché, per dirla con Barth, Dio è Dio. Perché Dio è la totalità. E, poiché credere è credere che Cristo sia Dio, credere è credere che Cristo sia la totalità. Dunque la fede, che accoglie Cristo, è totalizzante. Che totalità sarebbe se la si relegasse in un angolino?

Certo vi sono diversi gradi di certezza, ma ciò che connota la fede soprannaturale fin dal suo sorgere, è il desiderio, che si attiva nel soggetto credente, di essere totalmente polarizzato dal Cristo [6]. Chi pensasse di addomesticare la propria fede, tenendola a bada in un perimetro circoscritto, onde impedirle di divenire totalizzante, non avrebbe più a che fare con la fede teologale soprannaturale, ma con una sua opinione religiosa su «Gesù di Nazaret », personaggio nobile e dalla dottrina elevata, ma non Verbo di Dio incarnato.

Tutto ciò non impedisce la piena valorizzazione della ragione: non si crede p. 96 perché è giusto, o perché è bello, e nemmeno perché è utile; si crede perché Gesù Cristo è davvero Dio. Perché è vero [7].

Ci sembra quindi scorretto, e fideistico, affermare che, l'allusione è a Dostoevskij, che disse appunto che avrebbe preferito Cristo alla verità, se avesse dovuto sceglieredovendo scegliere tra Cristo e la verità, sarebbe giusto optare per Cristo: si crede a colui che è la Verità. Vi sono in noi, creati dallo stesso Dio, che si è compiutamente rivelato e comunicato in Gesù Cristo, potenzialità conoscitive sufficienti a farci riconoscere con certezza quel dato, che è per noi massimamente importante, dipendendone la nostra salvezza.

Come potremmo chiamare Padre un Dio che si divertisse a farci brancolare nel buio?

Ora, si inserisce qui il discorso sulla metafisica, quale modalità non certo unica, né privilegiata dal punto di vista del singolo, di apertura conoscitiva razionale e oggettiva al cristianesimo.

Parlare di questo tema con un minimo di organicità richiederebbe lo spazio di un altro articolo. Ci limitiamo perciò ad alcune sintetiche notazioni.

a)La metafisica è intrinsecamente possibile. Da un punto di vista filosofico, poiché la conoscenza ci porta (per quanto più o meno imperfettamente) sul reale; argomento che peraltro dobbiamo limitarci ad asserire [8]. Dal punto di vista teologico, che in questo articolo più conta, ciò si può non dico dimostrare, ma mostrare conveniente, appunto per quanto sopra ricordato: non è pensabile che Dio si diverta a ingannare l’uomo, facendogli danzare davanti una congerie di evidenze illusorie; una umanità siffatta non potrebbe,lo ripetiamo, essere davvero libera e personale. Sarebbe un burattino, manovrato da un Genio beffardo e crudele.

b) La metafisica (come scienza, tecnicamente elaborata) non è necessaria per il singolo, ma in qualche modo lo è per la società [9].

p. 97

c) La metafisica può essere più o meno utile. Certamente essa non basta a far scoccare la scintilla della fede, né costituisce la via normalmente privilegiata per giungere a credere. Soprattutto c'è metafisica e metafisica: alcune costruzioni metafisiche risultano astratte (in senso deleterio) e «arroganti». Ed è vero che esse possono ingenerare nel filosofo, che le elabora, un atteggiamento di superbia, che non è certo l’humus ideale per la fede. Ma ciò non toglie che esistano delle riflessioni metafisiche serie, affidabili ed efficaci.

d) Nell'attuale contesto storico-culturale una costruzione metafisica che voglia essere davvero utile dovrebbe fondarsi su una nutrita e convincente base fenomenologico-esistenziale; senza perciò rinunciare al rigore logico-dimostrativo.

Bisogna insomma coniugare l'istanza scientifico-concettuale con quella sapienziale-esperienziale, il momento «tecnicamente» rigoroso e quello di afflato concreto-affettivo, l’oggettiva universalità del logos e l'urgenza particolarizzante dell’ethos.

Una rigorosità asetticamente oggettivo-universale sarebbe sterile, come uno scheletro senza carne. Una esistenzialità non permeata da un robusto impianto logico, sarebbe altresì inutile, come della carne flaccida, senza ossatura.

Non ci si chieda poi quali siano in concreto le costruzioni metafisiche che rispondono a queste condizioni: non ci riteniamo giudici di tale questione. Certo potremmo osservare che esistono non pochi tentativi in tal senso, nell’ambito della filosofia cattolica del nostro secolo, alcuni dei quali ci sembrano decisamente interessanti.

p. 98

note


[1] Anche perché in un certo senso la questione è già risolta, mentre in un altro essa è irresolvibile (almeno de facto). E risolta da sempre, intendiamo dire, da un punto di vista esperienziale-esistenziale: l'insegnamento del Magistero ha in tutti i secoli ribadito gli argini, entro cui deve collocarsi il rapporto corretto tra fede e ragione, né sembra che i santi abbiano dovuto aspettare le minuziose calibrature concettuali dei dotti, per vivere l’esperienza cristiana con la massima intensità possibile. Ciò dicendo non vogliamo minimamente far professione di anti-intellettualismo: è giusto e doveroso pensare la fede, o meglio pensare nella fede, con la maggior precisione possibile, senza sbavature o semplicistiche approssimazioni. Per vivere infatti è necessario dare dei giudizi, che nessun buon sentimento può sostituire, né a livello personale, né tantomeno a livello sociale. Ma è proprio in questo secondo senso, concettuale e riflessivo, che ci pare non si possa pretendere di giungere ad una sistemazione esauriente e definitiva, in questa come in altre grandi questioni (quali il rapporto natura/soprannaturale o quello grazia/libertà). Non perché non esista su tali problemi una vera, esauriente e definitiva soluzione; e nemmeno perché tale soluzione sia de iure inattingibile alla nostra ragione: solo constatiamo che de facto tale soluzione non è mai storicamente stata indicata, mentre si sono avanzate diverse soluzioni (ad esempio quella agostiniana, quella tomista, quella scotista, quella molinista), senza che il Magistero ne abbia canonizzato alcuna, limitandosi appunto a stabilire gli argini entro cui fosse consentito un pluralismo di indirizzi. Il fatto è che non solo si ha a che fare con un Oggetto incommensurabile alla nostra capacità razionale, ma, soprattutto, nessun figlio di Adamo, eccetto il Cristo ha mai avuto una volontà così buona e santa, da non far mai deflettere l'intelletto da un atteggiamento di totale e incondizionata sottomissione alla Verità intera. E l'Unico, che avrebbe potuto darci una teologia infallibilmente vera ed esaustiva, non pare essersene granché occupato!

[2] Soprattutto ne Le mystère du surnaturel, Parigi 1965 (tr. it., Jaca Book, Milano 1978); in part. cap. 6/9; e in Paradoxes, Parigi 1959. Affinità con tale concetto di paradosso come sintesi antinomica la possiamo trovare in R. Guardini, con il suo discorso sulle «tensioni polari». Qualche analogia esiste pure con il pensiero del Cusano; mentre netta è la differenza con la dialettica hegeliana, per la quale le polarità antinomiche sono realmente, e non solo apparentemente, contraddittorie.

[3] Cfr., ad esempio, S. Tommaso, Summa contra gentiles, I, 6/8; o S. Bonaventura, II Sent, d. 24/5 Hex, c.4e 6.

[4] Alludiamo alla prima enciclica, la Redemptor hominis. Per quanto concerne la teologia, potremmo citare, ad esempio, von Balthasar, Gloria, tr. it. Jaca Book, Milano, vol. I 1975, pp. 115 segg. passim. In particolare p. 131: «L'oggetto formale della teologia (e perciò stesso anche quello dell'atto di fede) giace nel cuore dell’oggetto formale della filosofia ».

[5] Osservazioni molto interessanti a questo proposito si trovano in H. de Lubac Spirito e libertà Jaca Book, Milano 1981, opera in cui il teologo francese dimostra con ampia documentazione la coessenzialità della libertà alla creatura spirituale e la conseguente assurdità del concetto di «sostanza soprannaturale» creata ma intrinsecamente impeccabile, tesi questa avanzata da alcuni teologi moderni e contrastante con la tradizione. Per un sintetico abbozzo della questione ci permettiamo di rinviare al nostro “Appunti sul tema della libertà in de Lubac”, in Per la filosofia, ed. Massimo, Milano,n. 9 gen./apr. 1987, pp. 94/103. Ci sia consentito citare almeno un breve passaggio dalla conclusione del padre de Lubac (op.cit.,p. 257): «Lo spirito non desidera Dio come l’animale desidera la preda; lo desidera come un dono. Non cerca affatto di possedere un oggetto infinito: vuole la comunicazione libera e gratuita di un Essere personale. Se dunque, per assurdo, potesse prendere il suo bene supremo immediatamente, non sarà più il suo bene».

[6] Il Concilio Vaticano II ha giustamente ribadito una verità, percepita molto vivamente nei primi secoli di storia cristiana e sbiaditasi alquanto in epoca moderna, quella della universale vocazione alla santità (cfr. in particolare Lumen gentium, cap. V). Non vi è inoltre, secondo le più accreditate riflessione di teologia spirituale del si intende il XX secolonostro secolo, tra cui quella del padre Garrigou-Lagrange, differenza sostanziale tra un sincero desiderio germinale di essere infuocato dalla carità di Cristo e la matura esperienza del mistico: un certo livello di vita mistica non è appannaggio di pochi privilegiati, ma è vocazione comune di tutti i battezzati.

[7] Va da sé che verità non coincide con dimostrabilità, e nemmeno con piena intelligibilità, come sarebbe in una prospettiva razionalistica di stampo cartesiano-hegeliano. Il che equivale, ancora, a distinguere tra ragionevolezza e razionalità: la ragione, come capacità di cogliere il vero, non si esaurisce nella razionalità concettuale-discorsiva, ma comprende il più vasto ambito della connaturalità (cfr. J. Maritain, Quatre essais sur l'esprit dans sa condition charnelle, Paris 1956; tr. it., Morcelliana, Brescia 1978).

[8] Che la conoscenza naturale sia apertura al reale, ci pare una tesi troppo evidentemente connessa con la visione cristiana, perché possa essere seriamente messa in discussione. L'errore e le deformazioni della conoscenza (di cui non avrebbe senso parlare se non in rapporto ad un parametro oggettivo-assoluto) sono da ascriversi ad un livello secondario, al giudizio su aspetti non incontrovertibilmente evidenti delle cose. Tali deformazioni hanno come condizione il carattere non tanto soggettivo, quanto imperfetto della nostra conoscenza, ma hanno come causa unicamente il peccato. La condizione è gnoseologica (ultimamente ontologica), ma la causa è etica. A meno che non si voglia incolpare il Creatore, come già abbiamo detto più volte, di una volontà ingannatrice... Si potrebbe però più facilmente contestare il nesso tra questo punto e la possibilità di costruire una metafisica. Da un punto di vista storico si può rispondere che tale nesso è documentabile, ci risulta, senza eccezioni: tutti coloro che hanno negato la possibilità della metafisica, hanno concepito soggettivisticamente la conoscenza. Da un punto di vista teoretico, poi, potremmo osservare che l'intelligenza non è mai registrazione passiva di un dato: e perché dunque lo dovrebbe essere riguardo a quel livello centrale e profondo della realtà conoscibile, dalla cui corretta interpretazione dipende non un settore circoscritto, ma l'impostazione della nostra vita, il suo orientamento al destino ultimo? Perché insomma la ragione, attiva interprete di livelli parziali del reale (quelli oggettivati dal sapere scientifico), dovrebbe poi essere passivamente descrittiva di ciò che più le importa?

[9] Cfr. J. Maritain, Umanesimo integrale, tr. it. Borla, Roma 1977, pp. 197/211. Cfr. anche L'uomo e lo stato, tr. it.,Vita e Pensiero, Milano 1975, pp. 207/8. Il filosofo francese sostiene che una civiltà autenticamente umana (quale può essere davvero solo una civiltà cristiana) dovrebbe porsi come fondamento il riconoscimento della esistenza di Dio. Il che implica, osserviamo, la validità di un discorso metafisico, cioè la possibilità di rendere oggettivamente ragione di tale fondamento, visto che per Maritain, come per ogni cristiano, non è pensabile una operazione simile a quella proposta da Comte, di elaborare una sintesi dottrinale non importa quanto falsa, purché socialmente utile.